Cari amici,
di ritorno da Berlino, desidero scrivervi due righe per ringraziare e abbracciare a uno a uno chi ha reso possibile e ha partecipato a questo ultimo cammino, che è stato il più lungo, il più ambizioso, il più estremo e il più tormentato tra quelli da noi compiuti. Per questo credo che rivesta un’importanza cruciale nella vita della nostra repubblica, che sia stato un’ardua prova e un passaggio, e la grande emozione, gli abbracci e le lacrime di fronte alla porta di Brandeburgo, al termine di giorni e giorni di cammino attraverso foreste bagnate e fredde, ne sono la dimostrazione e il suggello.
Abbiamo attraversato 4 diversi paesi europei (Francia, Belgio, Olanda, Germania), abbiamo conosciuto la solitudine e l’indifferenza ma anche lo stupore, il rispetto, la simpatia e la calda accoglienza da parte di persone incontrate lungo la strada o che ci hanno generosamente ospitato e in qualche caso sfamato, di sindaci, di associazioni. Abbiamo potuto vedere e toccare con mano le differenze tra i vari paesi e tra le diverse parti degli stessi paesi, e questo ci ha dato una conoscenza ravvicinata, tridimensionale e profonda del nostro continente e di ciò che sta fermentando al suo interno. Nonostante la nostra debolezza sul piano della comunicazione, il cammino è stato, da un certo punto in poi, seguito quasi passo passo dai media locali e, nella sua fase finale, anche dalla televisione. Ci sono stati momenti drammatici, alcuni partecipanti sono dovuti rientrare e abbiamo visto in due diverse occasioni un paio di camminatori portati via dalle autoambulanze, per emergenze fortunatamente finite bene.
E’ stato un cammino di grande respiro, cui hanno partecipato diversi nuovi camminatori e che vuole essere l’inizio di una serie di cammini europei.
Il tema dell’unità dell’Europa -ma di un’altra Europa- è cruciale in questi anni, nelle nuove emergenze planetarie e di specie che abbiamo di fronte.
Ma ora devo dirvi con sincerità anche altre cose.
Ho sentito e letto parole che mi hanno addolorato e sorpreso e ho avuto l’impressione che sulla proiezione europeistica dei nostri cammini non ci siano completa consapevolezza e accordo, che ci siano incomprensioni e semplificazioni anche tra di noi, che non tutti gli appartenenti alla nostra piccola repubblica ne abbiano compreso l’importanza, e che ci siano state anche delle deformazioni circa la natura interna, l’originalità e la libertà di questo ultimo cammino, e che queste siano emerse proprio nel momento in cui molti di noi stavano facendo la cosa più difficile. Su tutto questo, come sui passi successivi da compiere per rafforzarci e allargare il nostro raggio, bisognerà confrontarsi senza reticenze nelle prossime riunioni, perché se si fossilizzassero luoghi comuni di breve respiro, nella forma e nei contenuti, idiosincrasie, personalismi e rancori, se ciò che era stato buttato fuori dalla porta dovesse rientrare dalla finestra e venisse meno la visione di quanto andiamo facendo, allora questa piccola grande cosa che abbiamo quasi miracolosamente messo al mondo non sarebbe più -almeno per me- un luogo dove sia bello stare e per la quale soffrire e sognare.
Può darsi che io abbia una visione estremistica e mistica delle cose e che senta in modo nevralgico il rapporto tra minoranze e maggioranze, tra ciò che è grande e ciò che è piccolo e sulla loro interazione profonda, ma è un fatto che io continuo a pensare e a sentire che, a volte, ciò che è grande più diventare piccolo e ciò che è piccolo grande. Questo è almeno ciò che penso a proposito dei nostri avventurosi cammini, e anche ciò che ho sentito nel profondo, provato e sperimentato per gran parte della mia vita di scrittore invisibile e sommerso.
Perciò, a mio parere, questo cammino è stato tutto meno che un fallimento, e credo che quelli che vi hanno partecipato e che hanno condiviso questo mese e mezzo di passione abbiano sentito, nella loro mente, nel loro cuore, nelle loro viscere, nelle loro ossa, di avere fatto una cosa importante, nuova e di proiezione, e di avere portato a termine una vera e propria impresa.
Non stiamo facendo una cosa facile, il nostro non è un deja vu, ci stiamo avventurando su una strada nuova e, quando succede questo, per un po’ si è più soli e incompresi di quanto non si vorrebbe essere. Ma ciò non toglie che l’anno prossimo dovremo compiere dei passi in avanti, rafforzando di molto la nostra capacità di comunicazione e di irradiazione e risolvendo altre cose pratiche decisive.
Siccome quello che abbiamo fatto ha -oltre che con tutto il resto- anche a che fare con la poesia, riporto qui i versi di Emily Dickinson che ho letto pubblicamente a Berlino, e li dedico con riconoscenza e affetto a ogni camminatrice e camminatore che ha reso possibile, ciascuno a suo modo, questo sogno continentale:
Chi non subì sconfitte è impreparato
a portare un diadema!
Chi non patì la sete ai calici
e al fresco tamarindo!
Chi non ha mai scalato vette impervie
come potrebbe esplorare
i rossi territori
dei lidi di Pizarro?
Quante legioni sono state vinte?
dirà l’Imperatore.
Quante bandiere fatte proprie il giorno
della Rivoluzione?
Quanti spari ti hanno colpito?
E la cicatrice regale?
Angeli! Scrivete “Promosso”
sulla fronte di questo soldato!
Antonio Moresco