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ANATOLIA ORIENTALE

UN ANGOLO SCONOSCIUTO DI TURCHIA

Anche quanti possono vantare di conoscere bene la Turchia, difficilmente si sono spinti oltre i camini di fate e le chiese rupestri della Cappadocia, nell’Anatolia Centrale, perchè l’Anatolia orientale rimane ancora oggi una regione isolata e di difficile accesso, povera e arretrata pur se di rilevante fascino e ricca di testimonianze storiche ed artistiche.     L’altopiano anatolico verso i confini orientali con la Georgia, Armenia, Iran, Iraq e Siria si presenta come un enorme tavolato ad una quota di 1800 m, compresso a nord dai monti del Ponto affacciati sul Mar Nero e a sud dai monti del Tauro e dell’Hakkari, dai quali nascono  i grandi fiumi mesopotamici del Tigri e dell’Eufrate, tutti alti oltre i 4000 m, mentre ad est svetta la possente mole conica dell’Ararat, la montagna biblica dell’arca di Noè perennamente imbiancatadi neve con i suoi 5165 m di altitudine.    Una terra aspra, selvaggia e poco abitata, dove vivono ancora lupi e orsi e prevale la pastorizia seminomade, legata ad uno stile di vita tradizionale più centroasiatica che mediterraneo, eppure una regione con una storia antichissima di lontane civiltà in quanto ponte naturale tra l’Asia Minore e il continente asiatico e passaggio obbligato per le rotte commerciali tra l’Oriente e gli imperi romani e bizantini, dalla Cina al Mediterraneo.    Ma anche di passaggio di tutti gli eserciti invasori diretti a ovest o ad est.    Da qui sono transitati Ittiti, Assiri, Egizi, Persiani, Macedoni, Romani, Bizantini, Arabi, Ottomani, Selguichidi, Mongoli e Russi, tanto per ricordarne i più importanti; da qui passò nel 400 a.C. Senofonte con la sua armata di mercenari di ritorno dalla Persia e poi Marco Polo in viaggio per il Catai.   La sua posizione geografica vide l’affermarsi di avanzate civiltà in epoca ancora remota, che già 5000 anni fa diedero vita alle prime città-stato, a cui fece seguito il potente impero Ittita, capace di tenere testa all’esercito egizio.   Molto dopo gli armeni, popolazione storicamente e culturalmente prevalente, arrivarono a creare un regno estreso dal Caucaso al Mediterraneo, pur schiacciati da ingombranti e potenti vicini con i quali cercarono di installare buoni rapporti commerciali che non scontri armati.    L’Armenia fu anzi la prima nazione ad adottare il cristianesimo come religione di stato, portata nel 303 da San Gregorio, come attestano ancora numerose basiliche.   Lo stile architettonico armeno, come pure quello georgiano, risente dell’influsso di Bisanzio e della Persia, ma ha avuto un suo sviluppo originale autonomo, con apogeo nei secoli attorno al Mille.    Le chiese, costruite in scura pietra vulcanica, presentano all’inizio pianta basilicale con una o più navate, ma già a partire dal VI sec. hanno pianta centrale sormontata da cupola con caratteristico tetto conico; gli esterni si presentano semplici, con arcate e lesene, finestre ogivali di tipo gotico e motivi zoomorfi o vegetali in rilievo, mentre gli interni offrono intricati motivi ornamentali con accurati rilievi.   L’altra etnia della zona, oltre a quella armena e alla turca, è rappresentata dai Caurdi, fiera e combattiva popolazione iranica di allevatori seminomadi disseminata tra Turchia, Iran e Iraq che da sempre aspira ad una propria nazione; aspirazione finora frustrata nel sangue, con la sua lingua scritta contemporaneamente con caratteri arabi, latini e cirillici.

L’ITINERARIO

Un possibile itinerario attraverso la Turchia orientale parte dalla capitale Ankara, dove visitare lo stupendo Museo delle Civiltà Anatoliche, e prosegue con la città ittita di Harrusas, vecchia di 4000 anni, Amasya, importante centro teologico in età ottomana, e Trabzon, grande porto sul Mar Nero con la duecentesca chiesa di Santa Sofia.   Si raggiunge Erzurum, antica città carovaniera a 195o m ricca di monumenti di età selgiuchide, quindi Ani, scenografica città morta già capitale del regno armeno con una dozzina di chiese risalenti al X-XIII sec, Dogubayazit, la città turca più orientale dominanata dall’Ararat, dove merita una visita la curiosa residenza seicentesca di un emiro curdo, arrivando al lago Van, specchio d’acqua salatissima grande dieci volte il Garda, sulle cui sponde si susseguono siti storici ed archoelogici.    Si riparte per Cavustepe, capiatle del regno urarteo nell’VIII sec. A.C., la chiesa del X sec.sull’isola di Akdamar, capolavoro dell’architettura armena, Diyarbakir, antico nodo carovaniero dalla bella cinta muraria, Mardin, sede di antichi monasteri ortodossi, e Sanliurfa, la città di Abramo, per raggiungere uno dei luoghi più affascinanti e singolaridi tutto il paese: la vetta del monte Nemrut Dagi con la monumentale tomba di Antioco I, satrapo locale del I secolo a.C., circondata da enormi teste di leoni, aquile, dei e personaggi, nelle quali si fondano elementi culturali ellenistici, anatolici e persiani.

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Russia

Kamchatka, terra di fuoco e di ghiaccio

Se non fosse per il gioco del Risiko, dove costituisce una fondamentale pedina territoriale per la conquista dell’Asia o Nordamerica, della Kamchatka non conosceremmo neppure l’esistenza.  Troppo lontana da noi: 10 mila km in linea d’aria e ben 11 ore di fuso orario; insomma un altro mondo. Si tratta di una penisola dell’estremo oriente russo, nell’est della Siberia, lunga 1250 km e grande una volta e mezzo l’Italia e quanto il Giappone, protesa da nord a sud nell’alto dell’oceano Pacifico. Al suo largo si trova la fossa delle Kurili, -10500m, una delle maggiori profondità oceaniche. Territorio montuoso, possiede due catene parallele che si spingono fino a 4750 m di altezza, 14 mila fiumi, 100 mila laghi fra grandi e piccoli, 414 ghiacciai perenni. L’inverno si presenta rigidissimo, con temperature fino a -40’C, otto metri di neve e fiumi e laghi ghiacciati per sette mesi l’anno. Una terra di ghiaccio, dunque?  Non esattamente, perchè nella breve estate le foreste di betulle, che coprono un terzo del territorio, si popolano incredibilmente di animali e di piante, e poi anche il fuoco si gioca una parte non secondaria, sotto forma di vulcani e di manifestazioni geotermiche di vario genere come pozze ribollenti di fango, fumarole, geyser e sorgenti termali terapeutiche, grazie alla presenza di vari tipi di minerali, dallo zolfo al boro. Trovandosi nel punto di frizione tra la zolla tettonica continentale euroasiatica e quella nordamericana noto con il nome di “Anello di fuoco del Pacifico”, l’energia sotterranea si scarica un numero rilevante di vulcani: oltre 160 quelli in quiescenza e una trentina ancora attivi. Ma i numeri non vanno presi alla lettera: nel 2007 vi è stato scoperto un vulcano inativo di 1,5 milioni di anni, con un diametro di ben 35 km, tra i maggiori del mondo. Quindi una terra di fuoco e di ghiaccio al tempo stesso, dominata da una natura preponderante quasi per nulla intaccata e alterata dall’uomo, un museo ecologico all’aperto con 60 specie di mammiferi, dall’alce all’orso bruno, dalla pecora delle nevi al gallo cedrone, dalle lepri alle volpi rosse e polari, e 160 uccelli terrestri, rapaci e marini, con in mare leoni marini, foche, lontre, delfini, balene e orche, un ambiente dove si fondono gli ecosistemi della tundra artica e della taiga siberiana, con laghi acidi dai mille irreali colori, sorgente termali calde in mezzo ai ghiacciai, imponenti cascate, brune colate pioetrificate di lava e incredibili sculture di pietra create dalle eruzioni.    E poi il 27′ del territorio protetto con 5 parchi nazionali e due naturali e il territorio dei vulcani tutelato dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità. Può sembrare strano, ma questa penisola estrema è anche una terra di curiosità e di primati a cominciare dalla densità, con meno di un abitante per kmq, tra le più basse del pianeta, e dalla bellezza delle sue donne, cantata da stornellatori e poeti, non ultimo quel donnaiolo di D’Annunzio. La penetrazione russa cominciò soltanto nella seconda metà del 1600 ad opera di cacciatori, pescatori ed avventurieri che iniziarono un lento processo di russificazione, cristianizzazione e poi di sovietizzazione, trovando questi ultimi terreno facile nei nativi che per loro indole atavica non riuscivano proprio a concepire l’dea della proprietà privata. Animisti convinti, essi vivevano infatti da sempre in armonia con l’ambiente, capace di fornirgli tutto ciò di cui avevano bisogno, sia che fossero pescatori, cacciatori o allevatori di renne. Le prime esplorazioni per terra o per mare risalgono al 1725 e furono opera di Vitus Johannes  Bering, incaricato dallo Zar Pietro il Grande di verificare se vi fosse un collegamento tra Siberia e Nord America. Per ben due volte la Kamchatka è stata sul punto di diventare uno degli Stati Uniti d’America, e non stiamo parlando di una partita di Risiko: nel 1867, quando la Russia vendette l’Alaska agli USA, anche lei era in vendita, poi Stalin per fare cassa tentò di venderla ad un miliardario americano, ma con la clausola che dovesse rimanere comunista, e non se fece nulla. Poi fino agli anni 90 è stata interdetta a stranieri e russi per motivi strategici e militari, e un timido turismo ecologico di scoperta è iniziato soltanto in questi ultimi tempi. I luoghi incantevoli e gli spettacoli affascinanti non mancano. Come la valle dei Geyser, un canyon di non facile accesso scoperto soltanto nel 1951, percorsa da un torrente termale di acqua calda disseminata da caldere ribollenti di fango e da 20 grandi geyser che sputano ritmicamente colonne di vapore acqueo alte fino a 12 metri, oppure il cratere del vulcano attivo Mutnovsky, dove si penetra nell’immensa caldera attraverso uno stretto canyon tra fumarole di zolfo, acque ribollenti e ghiacciai fumanti, in un’ambiente fantastico e inquietante degno di Viaggio al centro della terra. Oppure percorre la baia di Avacha, di fronte al capoluogo Petropavlosk, tra migliaia di uccelli (pulcinelle di mare, pucinelle dai ciuffi, urie, fulmari, aquile di mare e gabbiani siberiani) che nidificano su isole e scogliere, mentre nelle fredde acque, dove si specchiano i ghiacciaio circostanti, nuotano leoni marini, foche, lontre marine, delfini, balene e orche. Abbiamo parlato di primati della Kamchatka. I suoi fiumi e i suoi laghi costituiscono uno dei principali luoghi al mondo per la riproduzione dei salmoni. Ogni anno 2 milioni di questi pesci ritornano in queste acque per il loro perenne rito di amore, riproduzione e morte, attesi regolarmente al varco sulle sponde da una miriade di orsi bruni, pronti a fare una bella scorpacciata ed offrire uno degli spettacoli più belli della natura. L’orso locale, che qui registra la più alta concentrazione, è il maggiore della terra: supera i 3 metri di altezza, per un peso di 350 kg. Anche l’alce di queste contrade è da primato, con una tonnellata di peso eun palco di corna ampio 170 cm.   Infine pure i rapaci rsaggiungono da queste parti una delle maggiori densità del pianeta: aquile di mare, aquile dalla coda bianca e aquile dorate-

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l’tinerario

Ad un  turista colto e curioso la Dancalia ha parecchio da offrire, perchè costituisce unio dei musei natrurali più interessanti per l’osservazione delle morfologie tettoniche, passate e future.   Si comincia dal parco naturale del fiume Awash, poco sotto la capitale Adddis Abeba, un contesto di foreste e savane con canyon e cascate abitato da una ricca fauna, e dal lago Afrera, uno specchio di acque verdi salate circondato da basalti neri e da sorgenti termali situato 100 m sotto il livello del mare.    Si raggiunge facilmente il vulcano Erta Ale, il monte che fuma, il più spettacolare di una serie di crateri attivi alti sui 600 m allineati lungo una faglia, uno dei tre luoghi al mondo dove è possibile ammirare a cielo aperto un lago di lava in  perenne ebollizione a 1200’C, in quanto questo fenomeno avviene di solito nelle profondità marine.     La visione notturna della lava incandescente costituisce uno spettacolo unico e straordinario.  Attraverso sporadiche oasi di palme dun e colate di laghe si arriva al lago Assale, lago mobile salato che si sposta con i venti, e al cratere vulcanico di Dallol, uno dei punti più caldi e bassi della terra (-116m), un universo minerale di sorgenti geyseriane che producono stupendi laghetti con incredibili concrezioni e cristalli di cloruro di potassio, sodio e magnesio dai colori psichedelici, in un intenso afrore di zolfo.   Il vulcano ha anche costruito una distesa di guglie dalle diverse forme e dimensioni e dai colori intensi, quasi a formare una città fantasma e fantastica di roccia.    La contigua Piana del Sale èun’immensa pianura salina lunga 200 km, un’arido e rovente deserto di salgemma a perdita d’occhio, dove sempre Afar e Tigrini estraggono blocchi di sale che trasportano poi sull’altopiano etiopico con enormi carovane di dromedari, composte anche da duemila quadrupedi, uno dietro l’altro.    Lo storico egiziano Kosmos scriveva nel VI sec. che i re di Axum scambiavano il sale con l’oro.     Non costituisce affatto un caso che la Dancalia possieda uno dei maggiori depositi salini della terra.   In lontane epoche la depressione costituiva infatti un braccio laterale del Mar Rosso; poi sconvolgimenti geologici bloccarono l’accesso del mare e il lago evaporò, lasciando sul fondo strati di salgemma spessi centinaia di metri.    Si risale quindi per 2000 m l’altopiano assieme alle carovane bibliche del sale per raggiungere la regione del Tigray e il capoluogo Mekele (la Macallè italiana), dove visitare qualcuna delle misconosciute chiese rupestri ortodosse di Gheralta, risalenti le più antiche al IV-VI e le altre al IX-XV secolo, sconosciute fuori dalla regione fino al 1960, certo meno imponenti di quelle più famose di Lalibela ma ricche di elementi architettonici di pregio e di commoventi pitture.  In volo si rientra ad Addis Abeba, per una visita alla città e al suo pregevole museo antropologico e etnografico.

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ETIOPIA

Dancalia, inferno geologico tra sale e vulcani.

Esistono ancora sulla terra regioni sconosciute, o quantomeno meno sconosciute fino a ieri e comunque ancora poco note, dove il turista intrapendente possa sentirsi un esploratore, o almeno un pioniere ? In Dancalia tutto questo può avvenire. Sul lato orientale del grande acrocoro dell’Etiopia, costituito da enorme montagne basaltiche alte fino a 4000 m a formare la maggior massa di rocce vulcaniche ed i più estesi altopiani del continente africano, si sviluppa la vasta depressione della Dancalia (grande  quasi un terzo dell’Italia), un deserto atipico formato da sabbie, colorate di lava, vulcani attivi e spenti, manifestazione vulcaniche secondarie, laghi salati ed enormi distese di sale che cosatituisce uno dei lughi più caldi e inospitali della terra, oltre ad uno dei punti più bassi sotto il livello del mare, dove si ha la sensazione di trovarsi in un altro pianeta e non nel cuore dell’Africa orientale, a non eccessiva distanza dalle acque del Mar Rosso.     Ma anche un luogo estremamente affascinante e reale per gli amanti dell’avventura, dell’esplorazione geografica e dell’ignoto, del tutto sconosciuto dalle carte geografiche fino a 80 anni fa e dove ancora oggi non risulta facile avventurarsi e neppure scevro di pericoli (tanto che occorre andare con agenzie specializzate, in convoglio e con permessi, accompagnati da guide locali e scorta armata e ci si può accampare soltanto presso i posti di polizia), dove si può riscontrare meglio di qualsiasi altro posto i risultati di sconvolgenti avvenimenti geologici del passato e quelli in preparazione per il futuro.   In questo deserto di lava e sale non piove praticamente mai, da sempre, la temperatura in estate arriva ai limiti della sopportazione umana (50′ C,  ma con punte record fino a 81), l’unica acqua potabile proviene da profondi pozzi in quanto i laghi sono tutti salati o salmastri e l’unico fiume si perde evaporando nelle sabbie.   Viene da chiedersi come in presenza di simili condizioni ambientali estreme possano sopravvivere una stentata vegetazione con alberi di acacia, euforbia e dracene, una fauna peculiare con asini selvatici, zebre di Gravy, gazzelle, orici, struzzi e otarde e, soprattutto, come possano viverci gli Afar, una scorbutica popolazione di pastori nomadi che rimediano il pasto allevando capre e cammelli e estraendo e trasportandolo sull’altopiano lastre di sale.   La Dancalia, che costituisce il tratto sommitale africano della grande spaccatura teutonica della Rift Valley, fino al 1928 risultava inesplorata: venne attraversata per la prima volta da una spedizione italiana che impiegò 4 mesi e un sacrificio di 5 vittime; tutti i numerosi tentativi precedenti erano finiti miseramente per le condizioni climatiche e la feroce ostilità degli Afar.     Sicuramente in un lontano passato le condizioni non dovevano essere così proibitive, se hanno permesso la vita a Lucy, l’austrolopiteco fossile considerato il più antico antenato umano vecchio di 3,5 milioni di anni, scoperto presso Harar assieme ai resti di scimmie antropomorfe risalenti a 10 milioni di anni fa e a quelli di elefanti, coccodrilli e ippopotami fossili.   La depressione dancala, lunga 500 km e larga 150, costituisce la parte settentrionale africana della Rift Valley. Quaranta milioni di anni or sono Africa e penisola arabica erano unite in un unico continente. Poi un’enorme faglia, prodotta dalla deriva delle zone continentali che in questo punto tendono ad allontanarsi, provocò il distacco attraverso una fossa che fu subito invasa dalle acque dell’oceano Indiano a formare il Mar Rosso. Attrraverso il golfo di Zula, poco a sud della città eriotrea di Massawa, le acque penetrarono anche nella depressione dancala formando un vasto golfo interno.    Sette milioni di anni fa una nuova faglia diede il via alla Great Rift Valley, una fossa tettonica nella superfice terrestre lunga oltre 5000 km e larga in media 100, che dalla Siria entra nel Mar Morto e nel golfo di Aqaba, scende lungo il Mar Rosso fino a Massawa dove entra in Africa attraverso la Dancalia, scende lungo la depressione dei grandi laghi etiopici fino al lago Turkana, poi attraversa Kenya e Tanzania per concludersi in Mozambico.    Non è un caso che questa frattura superficiale nella crosta terrestre abbia restituito i più abbondanti resti fossili di ominidi e antenati umani.    Sul fondo della Rift, disseminato di manifestazioni vulcaniche attive o passate, la crosta terrestre ha uno spessore non superiore ai 20 km, contro una media altrove di 100, ed i bordi tendono ad allontanarsi di qualche millimetro all’anno.     Tra qualche milioni di anni il Rift determinerà immancabilmente la formazione di una nuova isola continente, staccando il Corno d’Africa dal Continente ner, che galleggerà nell’oceano Indiano verso est come il Mdagascar, ma più a nord.    L’esplorazione della Dancalia è stata ritardata rispetto ad altre regioni africane dalla presenza degli Afar, una popolazione poverissima, ma fiera e indipendente, feroce e restia a qualsiasi tipo di contatto esterno, dove il maggior vanto sociale per gli uomini risiede nel numero dei nemici uccisi o evirati, intentendo per nemici chiunquenon appartenga al loro ristretto clan familiare.   Numerose spedizioni nel 1800 e all’inizio del 1900 finirono tragicamente nel sangue, ed ancora oggi i turisti che osano avventurarsi debbono essere scortate da guide locali e guardie armate.    Di pelle scura e rossastra, i capelli lanosi ricci e ondulati, di elevata statura e naso stretto, le donne afar sono molto belle nei loro ampi drappi colorati di cotone che mettono in risalto i corpi statuari ambrati e la luce dei volti, le adolescenti con treccine e a petto nudo, tutte ricoperte di bracciali, collane, orecchini e amuleti.   Molte presentano tatuaggi e scarificazioni tribali.    Gli uomini, assai vanitosi, portano un inseparabile coltello ricurvo in un fodero al fianco e viaggiano sempre armati di bastone e fucile.    Donne e bambini abitano entro capanne semisferiche ricoperte di stuoie vegetali, facilmente trasportabili, mentre gli uomini dormono sorvegliando le mandrie, loro unico patrimonio.    Sono blandi musulmani e animisti al tempo stesso, poligami, si sposano spesso tra cugini e per prestigio sociale uomini e donne debbono avere più amanti.

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NEPAL

Mustang , regno proibito e ultimo Tibet

Una strada sterrata di appena 85 km, un continuo saliscendi a 3-4000 m di quota accessibile per ora soltanto in fuoristrada, camion e trattori, sembra destinata a cambiare -nel bene e nel male- la sorte e la vita in uno degli angoli più reconditi e sconosciuti dell’universo Himalayano. Stiamo parlando della strada inaugurata nel 2013 che percorre il fondovalle del Mustang da Jomsom fino a Lo Manthang.  Il Mustang costituisce un’appendice nel centro nord del Nepal, al di sopra della catena himalayana, che si insinua in profondità nell’altopiano tibetano e chiusa a sud dai massicci dell’Annapurna e dal Dhalaugiri. In pratica una vallata grande un terzo della Val d’Aosta, da sempre accessibile solo a piedi con lunghi e faticosi percorsi di almeno 5-7 giorni (solo andata) e passi innevati a 5000 m, tagliata longitudinalmente in due dal fiume Kali Gandaki, affluente del Gange, e circondata da vette mozzafiato alte 7000-8000 m. Prima della strada, i trekker potevano accedervi a piedi o a cavallo con guida locale in completa autonomia per mangiare, dormire e trasporto bagagli, pagando una salata tassa giornaliera per un massimo di tremila permessi all’anno.  Un deserto roccioso d’alta quota, brullo e assolato, ad un’altezza media di 3600 m, dove acqua e vento hanno scavato gole profondissime e spettacolari erosioni differenziate nelle rocce, con le ossidazioni dei minerali che creano colori psichedelici a tinte calde in contrasto con il verde dei campi e pascoli, abitato da un totale di 6000 persone di lingua, cultura e religione buddista tibetana, privo di elettricità e telefono. Ma anche uno stupendo e incontaminato libro di geologia a cielo aperto con incredibili erosioni, canyon, gole e grotte, dominato da una luce penetrante e dai colori delle rocce e dalle rare costruzioni, mentre in cielo volteggiano aquile e avvoltoi. Nel suo tratto inferiore presso Kagbeni, il Kali Gandaki origina le gole più profonde della terra. Le uniche macchie di verde sono costituite da qualche albero e piccoli campi d’orzo su terreni terrazzati attorno ai minuscoli villaggi, costruiti con mattoni di fango ma tinteggiati con colori vivaci, dove si vive miseramente allevando yak, cavalli, pecore e capre e usando il letame come conbustibile. La scarsità femminile viene compensata alla ricorrendo alla poliandria, dove una donna sposa contemporaneamente più fratelli.   L’economia si basa su allevamento, un pò di agricotura, e la produzione di bei maglioni di lana che verranno poi venduti a Katmandù. Non raggiungibile neppure dal monsone, piove poco e nevica relativamente meno; in estate le giornate sono temperate, vento a parte, ma di notte si sfiora lo zero. Fin dal 1830 ha rappresentato uno dei tanti principati feudali tibetani con il nome di Regno di Lo, chiuso in sè stesso e quasi inaccessibile, anche se nel suo territorio passava una non certa via commercialedi scambio di sale, lana, cereali e spezie tra Tibet e Nepal, tra Cina e India, sulla quale hanno transitato per millenni anche monaci e pellegrini per portare la parola del Buddha. Nel 1951 è stato inglobato nel regno nepalese (repubblica dal 2008, dopo la rivolta maoista), ma con ampia autonomia, tanto che l’attuale re Raja -grande allevatore di cavalli e mastini tibetani- gode ancora di ampia considerazione.  Negli anni 1960-70 la regione era inaccessibile in quanto principale base logistica dei guerriglieri tibetani khampa che si opponevano con le armi all’occupazione cinese della loro nazione, mentre fino a 1992 era inaccesibile agli stranieri; il primo occidentale a penetrarvi è stato un funzionario dell’ONU nel 1950. Questo isolamento ha consentito di conservare intatta la cultura tradizionale tibetana, della quale rappresenta l’ultimo baluardo, molto meglio di quanto non si possa riscontrare nel Tibet attuale, distrutto e snaturato dall’invasione cinese. Sparsi un pò ovunque si incontrano dzong (antiche fortezze), chorten (tombe di lama) e stupa (treliquari buddisti), muri mani (muretti votivi con preghiere incise) e gompa, monasteri buddisti e templi a partire dall’VIII secolo, quindi tra i più antichi in assoluto, decotrati con preziosi affreschi considerati tra i più elevati capolavori dell’arte tibetana, thangka (pitture religiose su tela), ruote di preghiera, statue di metallo. La religione prevalente è il buddismo lamaista tibetano di scuola Sakya, introdotto nel 1400, più socievole e aperto e meno metafisico. Il capoluogo, e antica capitale reale, porta il nome di Lo Manthang, un minuscolo paesino medievale di mille anime a 3780 m racchiuso entro possenti mura con 14 torri e una sola porta (unico esempio di città murata tibretana rimasta intatta in assoluto); all’interno da visitare il palazzo reale, che custodisce antichi oggetti sacri di inestimabile valore, alcuni gompa, la scuola di medicina tibetana, negozi e mercati. In città soltanto il Raja può entrare a cavallo. In maggio-giugno vi si svolge un importante festival religioso, il Tiji, immutato da secoli e che richiama fedeli da ogni parte, con suoni, danze, costumi e maschere per ricordarel’eterna lotta tra bene e male. Una curiosità: i Loba, gli abitanti della regione abituati da sempre in una realtà fuori dal tempo, hanno due nomi, uno tibetano e l’altro nepalese.